Il mio caso può essere paragonato a quel ritrattista che, commissionato del ritratto di una donna, la dipinge in studio prima di vederla, in maniera quindi completamente difforme dall’originale e una volta trovatosi di fronte alla persona vera, in carne ed ossa, non volendo abbandonare un quadro che reputa così ben riuscito in sé, procurasse di “modificare” la donna truccandola e deformandola con sfregi perché “somigli” di più al primitivo “ritratto”.
Carlo
Cambierei la realtà piuttosto che il mio modo di pensare, eh?
Forse è anche peggio: non riconosco la bellezza che esiste perché non si conforma al mio ideale astratto e aprioristico ma, nel tentativo di forzarla dentro i confini angusti del mio modello mentale, la rovino. E così genero bruttezza dove v’era bellezza.
Un proverbio arabo recita: “Non è bello ciò che vedi, è bello il tuo sguardo”. Se nelle persone che ci circondano vediamo soltanto bruttezza, dovremmo anzitutto sforzarci di cambiare il nostro sguardo 😉
Sono più propenso a dare ragione al commento di arikita. E’ un atteggiamento ovviamente rintracciabile anche nei filosofi certo ma sopratutto in quegli artisti che hanno un forte contenuto ideologico alle spalle e che non riescono a staccarsi da esso neanche nel momento della creazione. Ogni opera allora diviene quasi un manifesto, un autoritratto del proprio cervello. Sono in bilico fra saggio filosofico e romanzo. Spesso producendo un surrogato sia del primo che del secondo. 🙂