Che ci faccio qui, su questo pianeta? Di preciso non lo so. Me lo chiedo spesso, però. Per ora sono arrivata alla conclusione che sia per contribuire a rendere la realtà interna (me stessa) ed esterna (il mondo in cui vivo) un posto più accogliente per tutti. Per sentire mie le battaglie combattute in nome dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia. Per esercitare la compassione e provare a comprendere.
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3 pensieri riguardo “Prendi un altro”
Ho esitato prima di auto-commentarmi, ma alla fine ho pensato fosse meglio precisare che questo post non mi piace o, meglio, non mi piace il meccanismo che descrive: la separazione, la distanza tra le persone.
E’ terribile notare come il dispiacere per una tragedia “sentita raccontare” non sia neanche lontanamente paragonabile al dolore di chi ne è travolto in prima persona. Quest’ultimo può esserne sconvolto al punto da augurarsi, in momenti di sconforto rabbioso di cui ovviamente non c’è da andare fieri, di sostituire i protagonisti della vicenda, a lui cari, con altri, sconosciuti.
Del resto, una dinamica simile è quella attuata da chi plaude allo smantellamento dello Stato sociale, ai licenziamenti ecc. purché non comportino conseguenze negative per la sua cerchia ristretta di amici e parenti. E’ la logica del clan, insomma.
Sento vicino, in questa riflessione, il post di Nadia “Dolore a metà“
Usare termini come “terribile”, secondo me, accentua, in negativo, un fatto che, di per se, è naturale.
Capiamoci bene; é cioè naturale che questi due fatti siano così “distanti”, che l’esperienza traumatica diretta sia imparagonabile al sentirsela raccontare. Per fortuna che è così.
Come lo scorrere del tempo lenisce certi dolori, così anche la lontananza fisica, affettiva, da modo alle persone non coinvolte direttamente di sopportare una vita già di suo abbastanza problematica.
Prospettarsi di arrivare ad empatizzare ( che poi, detto terra terra, mi piacerebbe capire bene cosa in realtà significhi? ) con ogni sventura, calamità o evento doloroso, mi sembra un idealizzazione fuori portata per la massa di persone che compongono il genere umano.
Dirò di più. Non so neanche quanto un accentuato coinvolgimento emotivo sia positivo.
Annibale
Concordo con le tue riflessioni. Nemmeno io credo che un’empatia totale sarebbe auspicabile. Però a volte questo processo naturale può risultare terribile se si vive in prima persona un evento tragico e si sperimenta la profonda solitudine che deriva dall’unicitò di quel dolore, e dal suo essere opaco, incomprensibile agli altri, seppur mossi da grande affetto. Per converso, l’alterità delle esperienze e dei vissuti (che è possibile ridurre, ma fino a un certo punto soltanto) può risultare “terribile” per chi si sforza di supportare e accompagnare un’altra persona in un momento di profonda sofferenza, e si scontra con i limiti della vicinanza, sempre mediata.
Ho esitato prima di auto-commentarmi, ma alla fine ho pensato fosse meglio precisare che questo post non mi piace o, meglio, non mi piace il meccanismo che descrive: la separazione, la distanza tra le persone.
E’ terribile notare come il dispiacere per una tragedia “sentita raccontare” non sia neanche lontanamente paragonabile al dolore di chi ne è travolto in prima persona. Quest’ultimo può esserne sconvolto al punto da augurarsi, in momenti di sconforto rabbioso di cui ovviamente non c’è da andare fieri, di sostituire i protagonisti della vicenda, a lui cari, con altri, sconosciuti.
Del resto, una dinamica simile è quella attuata da chi plaude allo smantellamento dello Stato sociale, ai licenziamenti ecc. purché non comportino conseguenze negative per la sua cerchia ristretta di amici e parenti. E’ la logica del clan, insomma.
Sento vicino, in questa riflessione, il post di Nadia “Dolore a metà“
Usare termini come “terribile”, secondo me, accentua, in negativo, un fatto che, di per se, è naturale.
Capiamoci bene; é cioè naturale che questi due fatti siano così “distanti”, che l’esperienza traumatica diretta sia imparagonabile al sentirsela raccontare. Per fortuna che è così.
Come lo scorrere del tempo lenisce certi dolori, così anche la lontananza fisica, affettiva, da modo alle persone non coinvolte direttamente di sopportare una vita già di suo abbastanza problematica.
Prospettarsi di arrivare ad empatizzare ( che poi, detto terra terra, mi piacerebbe capire bene cosa in realtà significhi? ) con ogni sventura, calamità o evento doloroso, mi sembra un idealizzazione fuori portata per la massa di persone che compongono il genere umano.
Dirò di più. Non so neanche quanto un accentuato coinvolgimento emotivo sia positivo.
Annibale
Concordo con le tue riflessioni. Nemmeno io credo che un’empatia totale sarebbe auspicabile. Però a volte questo processo naturale può risultare terribile se si vive in prima persona un evento tragico e si sperimenta la profonda solitudine che deriva dall’unicitò di quel dolore, e dal suo essere opaco, incomprensibile agli altri, seppur mossi da grande affetto. Per converso, l’alterità delle esperienze e dei vissuti (che è possibile ridurre, ma fino a un certo punto soltanto) può risultare “terribile” per chi si sforza di supportare e accompagnare un’altra persona in un momento di profonda sofferenza, e si scontra con i limiti della vicinanza, sempre mediata.