C’è una finestra sopra il cemento, dei palazzi di fronte, della strada. C’è una finestra e poi c’è anche un cielo, bianco. E dentro al cielo, con i piedi sopra il cemento, c’è una ragazza: alla fermata del tram, aspetta, ha freddo, pensa e sente. Sente la rabbia che arriva.
Non sa in quale punto cominci, questa rabbia. Magari comincia dai piedi e poi sale, ma è così leggera che non sembra neanche rabbia, e poi invece, di colpo, arriva in pancia e lì si trasforma e diventa, come una cosa che ti stringe e ti fa più corto e più curvo, come un nodo, un groviglio. La ragazza ha già visto cosa fa la rabbia quando viene fuori, e non le piace. Ma ecco che la rabbia nella pancia si sposta, salta (sì, fa proprio un balzo) e si aggrappa alla gola, a qualcosa dentro la gola che la fa stare appesa. Adesso la ragazza la sente in quel punto (e intanto il tram non passa, e sicuro poi sarà pieno, sicuro proprio), in cui può diventare pianto. La ragazza sente la rabbia in gola e poi, d’un tratto, riesce a vedere sotto la rabbia, o forse dentro, come un sofficino ripieno, e nel ripieno vede se stessa, una ragazza uguale a sé, ma più piccola. Allora pensa che la rabbia è come quando una bambina si sveglia di notte e piange, e piange, ma dopo un po’ – se nessuno la prende in braccio – il pianto diventa un urlo arrabbiato, fino a far dimenticare che, all’inizio, era solo un pianto.
Com’è vero questo!
In questo piccolo brano riposa una potenzialità purtroppo non sviluppata.
L’incipit, con qualche accorgimento, diverrebbe poesia della fattispecie più nobile e originale.
Manca un ritmo, a giustificare il “viaggio” della rabbia, accompagnato fino a divenire un grande sguardo d’insieme, in lontananza. Quella lontananza in cui la rabbia si fa Rabbia.
Arianna, ti invito a riprenderlo in mano.
Grazie! Ci penso… 🙂